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Diagnosi Prenatale

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Con il termine “diagnosi prenatale” (in seguito “DP”) si intende l’individuare o l’escludere una o più patologie fetali, attraverso degli esami strumentali e di laboratorio. La necessità della diagnosi precoce di una malattia non è necessariamente finalizzata all’interruzione della gravidanza, anzi in alcuni casi conoscere in anticipo lo stato di salute del nascituro può dargli delle maggiori opportunità di sopravvivenza, tramite ad esempio la programmazione di eventuali interventi perinatali, sia farmacologici sia chirurgici.

La diagnosi prenatale è una attività complessa e multidisciplinare, che coinvolge il ginecologo, l’ecografista, ed il laboratorio; può essere invasiva o non invasiva, a seconda che comporti o meno un rischio, seppure minimo, per il nascituro.

Prima di addentrarci nel complicato mondo della DP, è bene ricordare che le malattie che comunemente chiamiamo “genetiche”, ossia dovute a danni del DNA, rientrano in due principali categorie: quelle propriamente chiamate “genetiche”, ossia malattie dovute a mutazioni di singoli geni (come le talassemie, la fibrosi cistica, le distrofie muscolari, ecc) e quelle che in realtà sono cromosomiche, ossia in cui è coinvolto un intero cromosoma o parte di esso (come le trisomie, le delezioni e le duplicazioni cromosomiche).

Vi ricordo (reminiscenze di biologia…) che il cromosoma è una intera molecola di DNA “attorcigliata” su se stessa, una meravigliosa invenzione della natura per far sì che ogni qualvolta una nostra cellula (o una cellula fetale) si divida in due riesca a smistare senza errori le sue 46 molecole di DNA; un gene invece è una porzione di DNA che generalmente contribuisce a creare una nostra proteina; in consulenza mi piace paragonare il cromosoma a un libro chiuso, i geni alle parole ivi contenute. Abbiamo 46 molecole di DNA (e quindi 46 cromosomi) sui quali sono disposti circa 21000 geni, della maggior parte dei quali oggi conosciamo posizione (cioè il punto esatto del cromosoma in cui il gene si trova) e funzione (ossia la proteina che ci produce). I cromosomi vanno a due a due, sono quindi 23 coppie, poiché ne ereditiamo di ciascuna coppia uno dal padre e uno dalla madre; di ogni gene quindi abbiamo due copie, uno del padre e uno della madre. Ciò vale per le prime 22 coppie; l’ultima invece fa eccezione, è quella dei cosiddetti cromosomi sessuali, XY per l’uomo e XX per la donna. I geni sui cromosomi sessuali sono gli unici fatti per funzionare in singola copia: per gli uomini il problema non si pone perché ne abbiamo già uno solo, le donne invece hanno due X, ma una delle due, a caso, viene “spenta”, quindi resa non funzionante.

Intorno alla fine del primo trimestre, oggi ogni coppia di futuri genitori ha la facoltà di scegliere tre strade: il test combinato, la DP invasiva (villocentesi o amniocentesi), o l’analisi del DNA fetale circolante da sangue materno.

In seguito proverò a descrivere queste tre opzioni nel modo più semplice possibile, nonostante per i “non addetti ai lavori” questi argomenti possano essere nuovi e alquanto ostici.

OPZIONE 1. TEST COMBINATO

Il test combinato più utilizzato è quello che comunemente viene chiamato “bitest”, che in maniera non invasiva stima il rischio delle 3 più frequenti malattie cromosomiche, che sono la sindrome di Down (trisomia 21, 1 ogni 700/1000 neonati), la sindrome di Edwards (trisomia 18, 1/6000 neonati) e la sindrome di Patau (trisomia 13, 1/10000 neonati). Il bitest si esegue esattamente tra la 11 più 0 e la 13 più 6 settimane, quando la lunghezza del feto (CRL – crown rump lenght – o lunghezza vertice sacro) è compresa tra 45 e 84 mm.

Per poter stimare tali rischi, il bitest valuta tre parametri:

  • la misurazione della translucenza nucale fetale (NT), una zona dietro la nuca fetale che all’ecografia appare appunto traslucida, e il cui aumento è suggestivo non solo di trisomia 21, ma anche di anomalie cromosomiche, malformazioni cardiache, e di alcune malattie genetiche;
  • l’età materna, il cui aumento innalza il rischio delle principali trisomie (lo vedremo fra poco);
  • i livelli plasmatici materni di free beta-hCG e PAPP-A, due proteine rilasciate dalla placenta.

Il bitest ha circa un 5% sia di falsi negativi, cioè non segnala trisomie presenti, sia di falsi positivi, cioè segnala trisomie in realtà assenti. Quando il bitest segnala un rischio aumentato (superiore a 1:250/300), si consiglia di eseguire la diagnosi prenatale invasiva.

La tabella sottostante stima le performance di vari tipi di test combinati.

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La tabella sottostante invece associa il rischio di trisomia 21 e di altre trisomie all’aumentare dell’età materna.

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OPZIONE 2. DIAGNOSI PRENATALE INVASIVA

La diagnosi prenatale invasiva prevede 4 tipologie di procedure, ossia l’amniocentesi, la villocentesi, e più raramente per indicazioni particolari la cordocentesi e la celocentesi.

Ciò che è fondamentale comprendere è che queste tecniche non sono indagini genetiche o cromosomiche, ma sono degli “atti medici” compiuti dai ginecologi, finalizzati a raccogliere dei campioni biologici fetali: non bisogna quindi confondere il campionamento di materiale fetale (che fa il ginecologo) con il successivo test cromosomico o genetico o biochimico (che fa il laboratorio).

L’amniocentesi è la pratica invasiva più diffusa, si esegue in genere tra la 16-18a settimana (ma anche più tardivamente) e consiste nel prelievo di liquido amniotico mediante un ago introdotto per via transaddominale sotto controllo ecografico. La peggiore complicanza è l’aborto, stimato intorno allo 0,2-0,5%, da sommare al rischio di aborto spontaneo dell’epoca gestazionale in cui si effettua il prelievo (0.7-1%). Nel liquido amniotico sono sospese cellule fetali, derivanti principalmente dallo sfaldamento degli epiteli (soprattutto dalla pelle fetale). La villocentesi invece consiste in un prelievo di villi coriali, ossia frammentini di placenta; è probabilmente più fastidiosa, ha un rischio di aborto leggermente superiore all’amniocentesi, ma ha il vantaggio di essere più precoce, infatti si esegue in genere dalla 10a alla 13a settimana. Su questi due tipi di campioni fetali (liquido amniotico o villi coriali), dopo circa un paio di settimane, il laboratorio di genetica referta alla donna che esegue il prelievo per età avanzata (sopra i 35 anni) o per un test combinato ad alto rischio un esame che si chiama cariotipo fetale.

Il cariotipo non è altro che una osservazione al microscopio ottico dei cromosomi, finalizzata a fare due cose:

  • contare il numero dei cromosomi, per escludere tutte quelle malattie in cui ci può essere un intero cromosoma in più o in meno (trisomie e monosomie);
  • analizzare la struttura dei cromosomi, per ricercare quelle anomalie in cui c’è un frammento di cromosoma in più o in meno, quelle che si chiamano rispettivamente duplicazioni e delezioni cromosomiche. Ogni volta che è presente una duplicazione, i geni contenuti nel tratto duplicato si troveranno in tre copie anzichè in due; ogni volta che è presente una delezione, i geni contenuti nel frammento deleto si troveranno in singola copia anziché in due. Ciò può causare quelle che si chiamano appunto malattie cromosomiche, che sono potenzialmente infinite, in quanto in teoria qualsiasi frammento cromosomico potrebbe andare in delezione o in duplicazione; quando tali riarrangiamenti accadono con una certa frequenza e sono patologici (perché non è detto che lo debbano essere sempre), allora ne conosciamo il quadro clinico, descritto in genere dal medico che avrà dato il suo nome alla patologia; ma ce ne sono altre così rare da non avere nemmeno un nome.

Ma attenzione, il cariotipo sì fa una analisi strutturale dei cromosomi, ma non riesce a vedere tutte le delezioni o le duplicazioni che ci possono essere in un cromosoma! Il cariotipo vede soltanto quelle che il suo “potere di risoluzione” gli consente di vedere, le più grandi insomma; quando una delezione o una duplicazione sono invisibili al cariotipo perché troppo piccole si definiscono infatti microdelezioni e microduplicazioni, e si possono ricercare con altri test cromosomici più approfonditi.

OPZIONE 3. ANALISI DEL DNA FETALE CIRCOLANTE DA SANGUE MATERNO

La coppia che desidera un esame più sicuro e più informativo rispetto al bitest, ma nel contempo vuole evitare il prelievo invasivo, può optare per la terza alternativa, il NIPT.

Il Test Prenatale Non Invasivo (NIPT è l’acronimo inglese) basato sulla analisi del DNA fetale circolante nel sangue materno rappresenta oggi il più sensibile test prenatale non invasivo per la ricerca delle trisomie 13, 18 e 21 (linee guida ministeriali Maggio 2015).

Il NIPT può essere eseguito dalla 10a settimana di gestazione in tutte le gravidanze, anche sulle gemellari, anche da fecondazione assistita con donazione di gameti o di embrione.

Ci sono due tipologie di test sul DNA fetale: quelli base, che escludono le patologie principali; e quelli “completi”, che le aziende fornitrici paragonano al cariotipo.

I test base ricercano le tre trisomie (13, 18 e 21), alle quali si può aggiungere l’esclusione delle altre 4 sindromi in cui si può nascere con uno dei due cromosomi sessuali in più o in meno rispetto a quanti dovrebbero essere: se normalmente l’uomo è XY, e la donna XX, ci sono infatti due anomalie per ciascuno dei due sessi: ci sono maschi che nascono con un secondo cromosoma X (S. di Klinefelter) o con un secondo cromosoma Y (S. di Jacobs); ci sono donne che nascono con una sola X (S. di Turner) o con tre X (S. del triplo X).

La maggior parte di queste sette malattie sono correlate all’età materna avanzata, ciò significa che il rischio di queste patologie aumenta all’aumentare dell’età della donna al momento del concepimento.

Alcuni esami sul DNA fetale propongono la ricerca aggiuntiva di alcune sindromi da microdelezione, che come già scritto non si vedrebbero nemmeno con il cariotipo fetale (quindi con l’amniocentesi). Ma prima di ricercare le poche microdelezioni scelte a priori dal test, andrebbero ricercate delezioni e duplicazioni cromosomiche a carico di tutti i cromosomi, “alla cieca”.

Sono pochissimi i NIPT che eseguono questo screening “completo” dell’intero genoma fetale da sangue materno, non limitandosi alla ricerca di trisomie e monosomie di tutti i cromosomi, ma fornendo anche informazioni sulla presenza di sbilanciamenti genomici (delezioni e duplicazioni) di dimensioni simili a quelle riscontrabili con il cariotipo tradizionale, e su questo screening “completo” c’è anche parecchia confusione, perché molti di questi test vantano di vedere delezioni e duplicazioni a carico di tutti i cromosomi ma senza specificare le “dimensioni” di tali alterazioni eventualmente riscontrabili: ciò rende l’esame più debole rispetto a chi dichiara la taglia minima delle dimensioni rilevabili.

Mi preme fare tre considerazioni importantissime sull’opportunità di eseguire o meno la ricerca di delezioni e duplicazioni cromosomiche, molto spesso dettata e purtroppo a volte suggerita dal ginecologo: spesso la paziente più giovane individua il test base, “che assomiglia al bitest” per ciò che vede, la quarantenne invece individua il completo perché è quello che “assomiglia all’amniocentesi”. Io questo ragionamento alla coppia lo ribalto, perché alla giovane che sceglie il base e mi chiede un parere devo fare notare che il test base vede proprio le poche malattie per cui ella è meno a rischio; alla quarantenne faccio osservare invece che delezioni e duplicazioni cromosomiche non sono assolutamente correlate all’età materna avanzata, perché più spesso vengono dallo spermatozoo (quindi dal papà); e quando sono di origine materna, ci sono studi che le associano alle donne più giovani! Inoltre esse non sono quasi mai ereditate, quindi anche il ragionamento “non ho casi in famiglia” non ha alcun senso; e non c’è indicazione ecografica che possa aiutare la coppia nello scegliere se indagarle o meno, perché se il ginecologo sospettasse una cromosomopatia consiglierebbe correttamente di seguire il percorso invasivo!

Dunque la scelta di quale approfondimento eseguire a mio parere rimane quindi meramente economica: “più spendo, più saprò”.

Infine, i test NIPT più moderni oggi sono in grado di ricercare anche malattie genetiche oltre alle cromosomiche (talassemie, fibrosi cistica, sordità, ecc), quindi malattie che come le microdelezioni non si vedrebbero nemmeno con il cariotipo (e quindi con l’amniocentesi), quindi in termine di informazione oggi i NIPT più completi rilevano più malattie della DP invasiva tradizionale; se invece non si è a priori contrari alla DP invasiva, secondo me andrebbe sempre valutata l’opportunità di eseguire sui campioni fetali da DP invasiva test cromosomici e genetici estremamente più ampi di quanto oggi proponga il sistema sanitario nazionale; oggi da un villo coriale o un liquido amniotico escludiamo centinaia di microdelezioni o microduplicazioni, o migliaia di malattie genetiche, con una spesa per la coppia inferiore a quella per un NIPT!

Infine, oltre alla completezza del test, la caratteristica più importante da valutare nella scelta del NIPT rimane la percentuale di falsi negativi e di falsi positivi, che troppo spesso o non è dichiarata o è espressa in percentuali che hanno poco senso: il laboratorio dovrebbe sempre, semplicemente e in trasparenza, dichiarare quanti falsi negativi e falsi positivi ha avuto nel totale delle indagini che ha eseguito.

PRESSO IL MIO STUDIO E’ POSSIBILE ESEGUIRE TUTTI I LIVELLI DI ANALISI DEL DNA FETALE CIRCOLANTE NEL SANGUE MATERNO ATTUALMENTE DISPONIBILI, E I PIU’ COMPLETI TEST CROMOSOMICI E GENETICI SU LIQUIDO AMNIOTICO O VILLI CORIALI (cariotipo fetale tradizionale o molecolare, amniocentesi molecolare, esoma clinico, intero esoma).


Dr. Michele Falco

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